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Il cinema è un'invenzione senza futuro

Il cinema è un'invenzione senza futuro

Archivi Mensili: agosto 2012

Il cavaliere oscuro – Il ritorno

29 mercoledì Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Christopher Nolan

con Christian Bale, Anne Hathaway, Tom Hardy, Marion Cotillard, Michael Caine, Gary Oldman, Jospeh Gordon-Levitt, Morgan Freeman; Origine: USA, 2012; Durata: 165′

Sono passati alcuni anni da quando Bruce Wayne ha indossato la maschera di Batman per l’ultima volta ma il suo volontario ritiro dalle scene è interrotto quando il commissario Gordon scopre un complotto teso a distruggere dall’interno la città di Gotham City. I nuovi nemici, con cui Batman dovrà confrontarsi, sono la misteriosa Selina Kyle e il letale Bane.

Il primo verdetto di The Dark Night Rises è inequivocabile: i contorni di Batman sono troppo sfuggenti anche per le grandiose costruzioni narrative di Christopher Nolan. La conclusione della sua saga è debole proprio perchè il cineasta inglese si è deciso ad affrontare il punto della discussione: una nuova definizione del suo mito. The Dark Knight sviava la questione e si rifugiava nell’affascinante salvagente di Joker: la personalità del villain gli offriva la possibilità di temporeggiare e di rinviare il faccia a faccia. Christopher Nolan non si era lasciato sfuggire la chance di restare nello schema archetipico della lotta tra l’ordine e il caos: era un campo che gli era più familiare e in cui gli era più facile esprimersi. The Dark Knight Rises non gli ha concesso la stessa alternativa e lo ha costretto ad ammettere una verità indigesta: Batman è un’icona puntiforme che non può essere ingabbiata nelle scatole cinesi dei suoi racconti. Il suo scacco è ancora più grande si si considerano le proporzioni del suo disegno a lungo termine e l’indiscutibile capacità del cineasta. Tim Burton non aveva mai nemmeno tentato: il paladino di Gotham City era il comprimario di freak come Joker e come The Penguin. Christopher Nolan non ha potuto fare lo stesso, per quanto avrebbe voluto dilungarsi di più su Bane: l’operazione della Warner pretendeva una nuova versione dell’eroe e lo script si è dovuto piegare alla volontà della produzione. The Dark Knight Rises lo riporta alla ribalta ma ha le stesse difficoltà di Batman Begins: è un film sulla carta che non riesce mai a trasformarsi in un’epica appassionante. La nuova serie ha sempre avuto un‘idea di fondo poderosa ma non è mai riuscita a svilupparla in tutta la sua potenzialità. Questi impacci possono avere diverse spiegazioni: il regista è dovuto scendere in un terreno che non è esclusivamente suo. Gotham City non è una delle città immaginarie di Inception e Bruce Wayne non è un personaggio teorico come la rivistazione noir di Leonardo Di Caprio. Christopher Nolan deve affrontare un materiale che gli resiste: Batman gli è precedente, non si lascia plasmare a sua immagine e somiglianza e fa cadere tutta la sua sceneggiatura. La maledizione del terzo capitolo colpisce anche uno degli scrittori più abili del cinema americano, come era capitato anche a Sam Raimi all’epoca di Spider-Man 3: la chiusura di una trilogia si conferma un’impresa difficile che non rispetta quasi mai le attese. The Dark Knight Rises frana per colpa di tutta l’efficacia del lavoro precedente e crolla sotto il peso delle sue grandi e lodevoli pretese. Christopher Nolan non rinuncia a circondare Batman di forti contrappesi e la sicurezza iniziale con cui affronta le sfaccettature di Bane e di Selina Kaye perde progressivamente la coerenza di cui avrebbe bisogno. Il film non reagisce con una rigida selezione del campo ma si smarrisce ulteriormente quando la storia moltiplica i personaggi e amplifica le loro tragedie personali: anzi, arrivano anche Marion Cotillard e Joseph Gordon-Levitt… Il lavoro di Christopher Nolan si incarta nell’ostinazione con cui insiste nell’unica cosa che lo fa sentire al sicuro: la scrittura. La necessità improrogabile del finale e l’obbligo di restituire il palcoscenico a Batman lo forzano a tagliare improvvisamente tutti i fili del suo racconto e ad affidare il loro destino ad una soluzione affrettata. L’attualità del socialismo anarchico di Bane, la vendetta dell’erede di Ra’s al Ghul, la devozione di un uomo di legge come Gary Oldman, la piacevole ambiguità di Anne Hathaway: sono tutte suggestioni che vengono accennate ma non ottengono la cura che meriterebbero. Christopher Nolan viene tradito proprio nel momento decisivo e si ritrova con un protagonista che non è più abituato a stare sotto i riflettori: la scelta tra le responsabilità verso la salvezza di Gotham City e la normalità di un ritiro non basta a dargli spessore. O forse è solo Batman che si ribella ad un programma troppo rigoroso… Se la scrittura avesse un’adeguata corrispondenza visiva, The Dark Knight Rises potrebbe riuscire ad emozionare nonostante le indecisioni sull’argomento principale della sua parabola morale: lo scontro primordiale tra il bene e il male in una città ormai abbandonata ed innevata parte bene ma poi si inciampa in un last minute rescue poco ispirato. Christopher Nolan non ha la mano per reggere la spettacolarità del blockbuster e la sua battaglia conclusiva viene annichilita dal confronto recenti deliri digitali di The Avengers e di Transformers 3, che facevano a pezzi il set di New York e di Chicago: le prodezze aeree del BatWing vengono dissipate da troppe spiegazioni auliche… L’ultimo atto di eroismo di Batman fa rimpiangere la guasconeria estrema di Iron Man e The Dark Knight Rises viene divorato dall’insaziabile hybris narrativa di Christopher Nolan…

La memoria del cuore

27 lunedì Ago 2012

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cinema, film

di Michael Sucsy

con Channing Tatum, Rachel McAdams, Sam Neill, Jessica Lange, Scott Speedman, Jessica McNamee; Origine: USA, 2012; Durata: 104′

Paige e Leo sono sposati da un paio di mesi e si amano come non mai quando una sera, mentre sono fermi in auto, vengono tamponati da un camion. Mentre il neo marito esce incolume dall’incidente, Paige riporta conseguenze più gravi, rimanendo in coma per un paio di giorni. Al risveglio, riconosce tutti i familiari che la circondano ma, riportando danni alla memoria a breve termine, non ricorda nulla di Leo e del sentimento che li univa. All’uomo non resterà che provare a riconquistare il cuore dell’amata, ripartendo da zero.

The Vow è stato il romance americano dell’anno: è uscito nel week-end di San Valentino, ha conquistato un pubblico estraneo alla tradizione annuale del film sdolcinato e ha incassato più di cento milioni di dollari. Il suo travolgente successo ha consacrato le qualità di Abby Kohn, che aveva già firmato il brillante He’s Just Not That Into You di Ken Kwapis e aveva confezionato un esempio definitivo come Appuntamento con l’amore, sotto la regia del mostro sacro Garry Marshall. La sceneggiatrice ha abbandonato la commedia sentimentale per concedersi ad una love-story più tradizionale e smielata. Abby Kohn ha l’invidiabile dote di sapere perfettamente quello che vogliono le donne e questo dono potrebbe farla diventare la regina del genere: il film comincia con i due che escono da un cinema d’essai dopo aver visto un film scelto da lei. The Vow mostra subito una delle sue caratteristiche più efficaci: Channing Tatum ama talmente tanto Rachel McAdams da andare persino a vedere un film che piace solo alla moglie. La storia è costruita su questa devozione unilaterale: la donna può permettersi di essere continuamente guardata e desiderata dall’uomo. Lo stratagemma narrativo della perdita della memoria la assolve da ogni responsabilità di coppia: Rachel McAdams non deve fare niente altro che ricevere l’amore incondizionato di Channing Tatum. L’innegabile presenza dell’attore aumenta il desiderio della spettatrice di essere corteggiata ed accudita da un ragazzo simile e l’invidia/immedesimazione verso la fortuna della protagonista. The Vow gioca continuamente su questo differente livello delle soggettive: è evidente lo scarto tra lo sguardo affezionato e disperato del marito respinto e quello indifeso della ragazza adorata. Channing Tatum e Rachel McAdams incarnano perfettamente i loro ruoli e la loro interpretazione da un contributo decisivo alla credibilità di questo meccanismo. La figura maschile è puramente accessoria: l’uomo vive in ogni momento il dramma di essere stato cancellato dai ricordi della moglie. I suoi sforzi di riaccendere la passione si scontrano quotidianamente con il peggiore terrore che prova ogni innamorato: essere dimenticato per sempre. La sua voce over ripercorre tutti i flashback che sono evaporati nella memoria della donna e che soltanto lui mantiene accesi. I momenti di impatto che ritornano nei suoi monologhi corrispondono alle tappe fondamentali di ogni romance: il primo incontro, il primo appuntamento, il primo bacio, la prima volta… E’ una prova ulteriore di come Abby Kohn segua il manuale alla lettera ed infili dei dettagli di altre epoche della letteratura rosa: la famiglia spinge per approfittare della situazione, riparare all’errore con il divorzio e riportare la figlia alla vita agiata e alle possibilità dei quartieri alti… La sceneggiatrice aveva già citato apertamente Un meraviglioso batticuore di Howard Deutch: era il film preferito di Ginnifer Goodwin in He’s Just Not That Into You. The Vow riprende lo stereotipo dell’ostilità generazionale che era al centro di un altro classico eighties come Non per soldi ma per amore di Cameron Crowe. Abby Kohn ha questa sensibilità cinematografica che la salva dal canone dei fastidiosi adattamenti di Nicholas Sparks. La sceneggiatrice si ferma sempre un attimo prima dell’esasperazione, cosa che il romanziere non si trattiene di fare: i suoi eroi saranno sempre belli e sensibili ma non saranno mai anche dei reduci di guerra… Il genere vince proprio attraverso la deformazione della realtà e si potrebbe confrontare il film con Paradiso amaro di Alexander Payne: anche in quel caso, le riflessioni sulla vita di coppia erano intrappolate in un dialogo senza uditorio. Rachel McAdams non rammenta il suo matrimonio, mentre la moglie di George Clooney era in coma vegetativo e non poteva rispondere alle rancorose rimostranze del marito: i due giovani scivolano tranquillamente verso il loro destino, mentre i due coniugi scoprono che il loro passato non era stato nemmeno vissuto. The Vow è così fedele al cinema che mostra la vita come dovrebbe essere, mentre il film di Alexander Payne ha il cinismo necessario per rappresentare la vita per quello che è.

Madagascar 3 – Ricercati in Europa

24 venerdì Ago 2012

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cinema, film

di Eric Darnell e Tom McGrath

voci di Ben Stiller, Chris Rock, Sacha Baron Cohen, Jessica Chastain, Frances McDormand, Bryan Cranston; Origine: USA, 2012; Durata: 93′

Dopo aver abbandonato il continente africano, il leone Alex, la zebra Marty, la giraffa Melman e l’ippopotamo Gloria stanno ancora cercando faticosamente di ritornare al loro amato zoo di New York ma, questa volta, complici una serie di disavventure, finiscono per ritrovarsi in Europa, dove si aggregano a un circo ambulante, mettendo in piedi uno spettacolo nel loro particolare e divertente stile. Incrociando nuovi compagni, come un leone marino italiano, una tigre russa e un giaguaro di origine ispanica, i quattro potranno sempre contare sull’aiuto degli amici lemuri e sui disastri del gruppo di pinguini, guidati dal temerario Skipper. 

Il ritorno del leone Alex e della zebra Marty presenta almeno due novità significative che allontanano i sospetti di una stanchezza creativa della Dreamworks. La scelta di affidarsi a Madagascar 3 non è l’ancora di salvezza di uno studio che non sa più come riprendersi dai suoi ultimi insuccessi. Le variazioni più appariscenti di questo capitolo riguardano l’ambientazione europea e la risorsa del 3D che finora non era mai stata affiancata a questo marchio. Il risultato finale fa capire un piccolo ma percepibile cambio di approccio: Madagascar 3 è un film apparentemente più disimpegnato del solito e offre meno spazio al difficile lavoro di autoconsapevolezza che aveva marchiato i precedenti eroi della Dreamworks. Il timore di una crisi di idee era stato alimentato dall’impasse di Kung Fu Panda 2 e di Shrek Forever After e da un’eccessiva dipendenza dalla verve della star di turno come in Will Ferrell in Megamind. La storia ha un’evidente smania di lasciarsi alle spalle la continuity della saga, di abbandonare l’Africa e di approdare alle vivaci e colorate scenografie delle città del vecchio continente. La nostalgia per la vita frenetica di New York li convince a tornare allo zoo di Central Park: il passaggio dalla savana al lungomare monegasco e troppo drastico e non c’è nessun dettaglio che ripari un salto così brusco. L’ansia di rivoluzionare radicalmente l’umore del film è l’unica causa accettabile per una simile approssimazione. La sceneggiatura di Noah Baumbach porta in dote proprio le fumature dei suoi script per Wes Anderson: una studiata assenza di collegamenti logici tra un’azione e l’altra e un’apparente mancanza di motivazione nei personaggi. Madagascar 3 è pieno di tocchi surreali, inverosimile ed ostentatamente grotteschi: la tigre Vitaly che deve passare attraverso lo strettissimo anello infuocato è un’impresa esasperatamente impossibile e richiama il mitologico squalo giaguaro de Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Tuttavia, il film si salva dagli eccessi più deleteri della sua scrittura e i personaggi non si alambiccano con delle speculazioni sulla loro inerzia e sulla loro apatia: il film guadagna un’allegra rassegnazione sulla definizione del senso che libera ed amplifica le prodezze di Alex e della sua compagnia. Quindi, il ritrovato classicismo di Madagascar 3 è solo una conseguenza delle solite deformazioni dell’immaginario camp di Noah Baumbach: la terribile accalappiatrice Chantel DuBois e il suo inspiegabile odio verso gli animali omaggia la disneyana Crudelia DeMon, si produce in un irresistibile versione di Non, je ne regrette rien di Edith Piaf ed è la caricatura di tutte e due. Il circo è un contesto ricercato e passee che offre la possibilità di arricchire l’assortimento di invenzioni naif: la foca Stefano ha un nome italiano che ammicca alla malinconia dei clown felliniani ma ha anche un potenziale slapstick su cui il film punta con convinzione. Il love affair tra l’egocentrico lemure Julien e la gigantesca orsa ammaestrata Sonya sfoggia i panorami romani e ripete il bizzarro abbinamento tra la giraffa Melman e l’ippopotamo Gloria. Tuttavia, il lavoro più importante che sta dietro a Madagascar 3 è un profondo rinnovamento delle occasioni narrative: l’assortimento dei personaggi si allarga e Alex e Marty diventano quasi dei comprimari. I tenaci, pignoli ed infallibili pinguini orchestrano le gag con i tempi del cinema muto mentre i numeri del circo scatenano tutto il potenziale della stereoscopia: le hit come Firework di Katy Perry accompagnano le prodezze acrobatiche, dissacrano gli evidenti riferimenti al cirque du soleil ed inseguono un dinamismo visivo puramente ludico.

Contraband

22 mercoledì Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Baltasar Kromakur

con Mark Wahlberg, Kate Beckinsale, Ben Foster, Giovanni Ribisi, Lukas Haas, Caleb Landry Jones; Origine: USA, 2012; Durata: 110′

È passato del tempo da quando Chris Farraday ha chiuso tutti i ponti con la sua precedente attività di contrabbandiere, ma la tranquillità e l’onestà – che ha conquistato con fatica – sono nuovamente messe a dura prova a causa di alcuni problemi economici che hanno portato il cognato Andy a mettersi nei guai. Così, per ripagare i debiti da lui contratti, Chris accetta il compito affidatogli da un boss della droga e, insieme all’amico Sebastian, mette su un gruppo di uomini per una missione speciale che da New Orleans li porta fino a Panama.

Contraband non è uno di quei film che passerà alla storia del cinema. Il regista islandese Baltasar Kromakur ha deciso di muovere i suoi primi passi nell’industria americana con un remake che si avvicina ad Hollywood con grande rispetto. La sceneggiatura si ispira a Reykjavik-Rotterdam, un film del 2008 che venne scritto e diretto dal connazionale Oskar Jonasson: la storia ha tutte le caratteristiche della tipica parabola dell’heist-movie e i suoi tratti sono talmente riconoscibili da confermare la duttilità e la facile traducibilità del genere. Contraband è un film uguale a molti altri: il protagonista ritorna alla vita criminale di un tempo per un ultimo colpo, deve difendersi dai nemici interni e non riesce a superare definitivamente il suo passato. La tensione non è affidata soltanto al successo del colpo ma al pericolo che le vecchie amicizie e i vecchi debiti contaminino le nuove certezze borghesi e minaccino la tranquillità familiare. L’eroe di Contraband deve salvare la famiglia da un conto che non era ancora stato saldato: i luoghi comuni si propongono in modo puntuale e certamente non lavorano al servizio dell’imprevedibilità. Eppure, il film fa una scelta ben precisa nella consapevolezza che l’heist-movie riesce sempre a destare l’attenzione dello spettatore: Baltasar Kromakur non ha problemi ad accettare le ferree regole del racconto e si affida ad una serie di convenzioni che funzionano in modo impeccabile e garantiscono sempre un ritorno del pubblico. Contraband non resterà nella memoria perchè non ha le fatalistiche sfumature noir di The Town di Ben Affleck e non ha nessuna intenzione di approfondire i personaggi e di tirarli fuori dallo stereotipo. Tuttavia, il film si avvale di un’ottima selezione del cast: tutti i nomi arricchiscono la loro parte di un’inividiabile presenza scenica. La performance di Mark Wahlberg è il valore aggiunto di Contraband: la sua interpretazione è all’insegna della sottrazione e si distingue per un approccio esclusivamente cinematografico. L’attore non fa mai sfoggio di un talento che forse non possiede ma colma le sue lacune con un’ordinarietà che fa il gioco del plot: ci si può interessare alla solita storia di guardie e ladri solo se si ha una grande simpatia nei confronti del contrabbandiere. Il padre di famiglia che abbandona la moglie e i figli per sbrigare un lavoro a Panama deve avere il volto comune di Mark Wahlberg e il divo è stato astuto a costruire la sua carriera su un ruolo di questo tipo. Il film gli somiglia in modo sfacciato e fa pensare che ormai l’attore abbia una personalità tale da condizionare l’atmosfera delle sue storie. Contraband è talmente robusto e coerente che sa come uscire fuori dai suoi difetti: non si preoccupa nemmeno di trovare un modo pirotecnico ed originale per diversificare il meccanismo dell’ennesima truffa. Il trucco con cui l’eroe riesce a far entrare le banconote false fa parte del repertorio ed è uno scontato deja vu: la sua ovvietà lascia pensare che lo sceneggiatore Aaron Guzikowksi abbia creduto ciecamente nel potere trascinante dell’intreccio e si sia affidato solo all’empatia con il protagonista. Il finale arriva in modo piacevole, con il sapore rassicurante di un viaggio in cui gli ostacoli sono stati piazzati solo per essere superati.

I mercenari 2 – The Expendables

19 domenica Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Simon West

con Sylvester Stallone, Jason Statham, Jean-Claude Van Damme, Liam Hemsworth, Bruce Willis, Arnold Schwarzenegger, Chuck Norris, Dolph Lundgren; Origine: USA, 2012; Durata: 103′

Durante una pericolosa missione nell’Europa dell’Est voluta da Mr. Church, Tool viene assassinato da un gruppo di sanguinari combattenti, alle dipendenze di un terrorista disposto a cambiare l’assetto geopolitico del mondo intero con sei chili di plutonio per uso militare pronto ad esplodere. I suoi compagni, i mercenari al servizio della Cia guidati da Barney Ross, a cui si sono aggiunti i due nuovi membri Billy Timmons e Maggie, giurano di vendicarsi un giorno dell’omicidio e lavorano affinché ogni minimo dettaglio sia ben pianificato. La rivalsa per i mercenari arriverà dopo una lunga scia di distruzione tra le fila delle forze nemiche.

Le capacità di Sylvester Stallone come sceneggiatore non avranno mai la giusta considerazione. The Expendables 2 dimostra ancora una volta il suo inossidabile talento nel costruire i personaggi senza tralasciare le necessità e le esigenze dell’azione. Il suo nuovo film è soprattutto il ritorno di Barney Ross, che ormai punta almeno a sfiorare quel livello di iconicità che hanno guadagnato il pugile Rocky Balboa e il reduce John Rambo. Il contractor ha tutte le qualità che identificano l’eroe stalloniano e rappresenta una sintesi definitiva della sua visione del cinema e del mondo: è un duro ma è anche onesto ed è proprio la sua purezza d’animo che lo costringe ad essere un solitario. Sylvester Stallone attinge al repertorio del cinema di genere, assimila gli archetipi e li infonde in tutti i membri della sua squadra di mercenari. The Expendables 2 ha perso Mickey Rourke e la sua malinconia: il secondo capitolo è meno dolente del primo episodio e non ha la stessa declinazione crepuscolare. Il marchio ha avuto un successo miracoloso e si è meritato un’altra corsa: la prepotenze affermazione ha cambiato il senso della saga. La mattanza dei mercenari non è più un’elegia nostalgica di un cinema passato ma una celebrazione del suo ritorno. Il film è molto più consapevole delle sue potenzialità e non si preoccupa dei suoi eccessi: il tiro esplosivo delle sue sequenze si è allargato allo stesso modo in cui si sono moltiplicate le occasioni offerte dal cast. La prima missione in Nepal è un prologo che ostenta immediatamente le sue intenzioni e avverte tutti quelli che ancora ne erano ignari: non si riesce a tenere il conto di quanti nemici vengano uccisi dall’inesauribile potenza di fuoco di Sylvester Stallone e dei suoi compagni. The Expendables 2 rivela subito la sua autoironia, la sua ostinata ricerca dell’effetto pacchiano, l’esasperazione che accompagna tutte le inquadrature. La regia di Simon West è duttile e asseconda il gioco: in particolare, cerca di mostrare la coreografica conseguenza di ogni colpo che viene sparato, in un tripudio di cattivi che vengono dilaniati dai proiettili dei buoni. Eppure, la scrittura di Sylvester Stallone usa ogni pausa che ha disposizione per smontare la virilità e l’infallibilità dei protagonisti: Barney Ross ha un trauma da vendicare, Jason Statham è geloso della moglie, Dolph Lundgren è irrimediabilmente goffo in tempo di pace… Se le loro imprese sono chiaramente spinte fino al limite della verosimiglianza, il fascino degli eroi viene moltiplicato da una debolezza che può essere condivisa e favorisce l’immedesimazione. Le prodezze di Bruce Willis e di Arnold Schwarzennegger sono piene di citazioni che tradiscono una divertita autoreferenzialità; il contributo di Chuck Norris è estemporaneo e cartoonesco ma anche irresistibile. Il corpo a corpo finale tra Sylvester Stallone e Jean-Claude Van Damme onora una promessa che il cinema non poteva farsi mancare: la ventennale attesa è stata ripagata da un esaltante duello che rinuncia alle armi meccaniche, ai ritocchi digitali e si affida esclusivamente alla plasticità imbolsita dei due attori, in un tripudio di testosterone e di indimenticabili frasi ad effetto. Il cambio alla regia ha lasciato spazio ad una contaminazione con i tempi narrativi contemporanei, ma il film ripiega sulla old school tutte le volte che sa di non poter sbagliare. Se The Expandables era un film che si giocava il tutto per tutto alla ricerca di una resurrezione apparentemente impossibile, il suo sequel è l’evoluzione naturale di una rinascita compiuta e vissuta pienamente. Le vite sullo schermo di Sylvester Stallone non si calcolano più e il suo legame affettivo con il pubblico gli permetterà di uscire fuori persino dall’ultima disavventura della sua vera esistenza: attraverso il cinema.

Blood Story

16 giovedì Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Matt Reeves

con Kodi Smit-McPhee, Chloe Moretz, Richard Jenkins, Elias Kotesa, Cara Buono, Sasha Barrese; Origine: USA, 2010; Durata: 116′

Abby è una misteriosa dodicenne che trasloca nell’appartamento a fianco di Owen, fragile ragazzino che spesso è facile preda dei bulli del quartiere. La bimba, che è in realtà una vampira, diventa pian piano la migliore amica di Owen.

C’erano diversi motivi di curiosità intorno ad un film come Blood Story. C’era la possibilità di valutare di nuovo e di confermare l’estro di Matt Reeves, che aveva partecipato come regista a Cloverfield, uno dei più interessanti esperimenti produttivi di J. J. Abrams; c’era la necessità di fare un confronto con Lasciami entrare, l’originale svedese che aveva lanciato il nome nuovo di Tomas Alfredson. Il primo adattamento del best-seller di John Ajvide Lindqvist rappresentava un curioso compromesso tra il genere horror e il cinema d’autore e si era fatto notare più nei festival in cui era stato selezionato che per l’effettivo successo tra il pubblico. La versione hollywoodiana era un’occasione per fare arrivare la storia di Oskar e Eli ad un pubblico più vasto, come spesso accade ai remake americani; il pericolo era quello che questa operazione snaturasse l’atmosfera di partenza in nome di una vocazione spettacolare quasi inevitabile. Matt Reeves si è occupato anche della sceneggiatura e forse gli si può attribuire l’unico torto di aver percepito questo rischio fino al punto di essersi attenuto sin troppo alle tonalità di Lasciami entrare. La storia mantiene l’ambientazione vintage ma trasferisce l’azione dai sobborghi di Stoccolma ad una sperduta città del New Mexico: la neve e l’isolamento dei personaggi sono le prime caratteristiche comuni dei due film. Matt Reeves ha estratto la qualità principale del romanzo di John Ajvide Lindqvist e l’ha elaborata a modo suo: l’attrazione tra l’adolescente e il vampiro non è legata soltanto al tradizionale magnetismo del mostro. L’irresistibile sessualità di Dracula viene smorzata dalla sua età puberale e dall’evidente mancanza di consapevolezza genitale della vittima: i personaggi non sono ancora formati per avere una storia di passione. Blood Story è piuttosto una vicenda di necessità tra due esclusi: il ragazzo è perseguitato dai bulli della scuola; l’eterna ragazza può uscire solo di notte e non può fare a meno di avere un servitore per saziare la sua sete. Lasciami entrare lavorava molto sulla praticità del vampirismo: il cerchio esclusivo tra i due era delineato e aveva una parte importante ma il film insisteva soprattutto sulla banalità delle situazioni e sulla loro verosimiglianza. L’esteriorità delle desolate scenografie urbane viene conservata senza spiccare per originalità: la glaciale Stoccolma era persino più depressa di quanto non sia Los Alamos e le sue anonime palazzine. Matt Reeves sceglie di lavorare sullo sguardo tra i due e sui piccoli gesti che anticipano il loro destino: il protagonista sa che prima o poi dovrà finire come il vecchio Richard Jenkins. Gli schiavi vengono cambiati tutte le volte che diventano inutili ma questo triste fato è pur sempre migliore del padre assente e della madre alcolizzata. Il vampiro entra (di proposito?) nella sua vita e si presenta come l’unica persona che si sia mai interessata a lui: i due non possono fare altro che abbracciarsi e salvarsi la vita a vicenda… Blood Story tratta questo rapporto con una delicatezza insolita, che avvicina i due giovani ai tormentati eroi di Gus Van Sant: i due hanno la stessa incertezza della crescita e la stessa innocenza pasoliniana, subiscono la stessa latitanza dei genitori, che si sentono ma sono sempre confinati in uno sfocato fuori campo. Owen è molto simile al giovane skater di Paranoid Park, che non ha ancora gli strumenti per capire il delitto che ha commesso. Lo sguardo timido ed impaurito con cui guarda il mostro è esitante nello stesso modo in cui la sua mano cerca un contatto con la persona amata. Matt Reeves sa rappresentare in modo efficace questi momenti rubati e così arricchisce Lasciami entrare di un affascinante paradosso: un’affettività malata ma ancora infantile e pura.

Immortals

14 martedì Ago 2012

Posted by gbanks1966 in Senza categoria

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di Tarsem Singh

con Henry Cavill, Stephen Dorff, Luke Evans, Mickey Rourke, Freida Pinto, John Hurt; Origine: USA, 2011; Durata: 110′

Accecato dalla brama di potere, Iperione, il sanguinario re dei Titani, ha dichiarato guerra alle divinità dell’Olimpo e all’intera umanità. Alla ricerca di un leggendario arco che permetterebbe di liberare i fratelli, imprigionati nella roccia, con i suoi uomini semina il terrore per i villaggi dell’antica Grecia, distruggendo ogni cosa e uccidendo chiunque gli capiti sotto tiro, compresi i genitori del giovane Teseo, che giura di vendicarsi. Istruito dall’incarnazione di Zeus in terra e aiutato dai consigli della visionaria sacerdotessa Freda e dall’abilità del ladro Stavros, il ragazzo raccoglie un gruppo di seguaci con cui forma un esercito pronto a fermare l’onda di distruzione e ristabilire l’ordine e la pace.

La firma di Tarsem Singh è la croce e la delizia di Immortals. Il regista indiano ha sviluppato un raffinato gusto estetico attraverso la sua esperienza nel mondo della pubblicità e in quello dei videoclip ma ha affrontato la sfida del film come se si fosse trovato davanti alla sua opera prima. E’ come se sentisse il bisogno di usare ogni fotogramma per dichiarare la propria innegabile sensibilità visiva. L’occhio viene ammansito dallo splendido uso della fotografia e dal ritmo sinuoso e coreografato delle battaglie, la composizione dell’inquadratura viene arricchita dalla cura con cui Tarsem Singh sceglie i colori: tuttavia, il film si dimentica di dare spessore ai personaggi e non riesce a raggiungere il modello inarrivabile di 300 di Zack Snyder. I produttori Gianni Nunnari e Mark Canton hanno tentato di ripetere il successo dell’adattamento del graphic-novel di Frank Miller e hanno provato a dare continuità al genere mitologico: la stessa scelta di Tarsem Singh tradisce la volontà di puntare sull’estetica e su una prospettiva inedita. Tuttavia, Immortals non riesce mai a liberarsi dell’ombra di Leonida e dei suoi spartani: il regista è consapevole di questo rischio e per evitarlo fino abbandona la caratterizzazione di Teseo e toglie ogni forzatura epica al suo personaggio. Il paragone con 300 si risolve in una totale mancanza di pathos: la sua lotta con Iperione è soltanto un clichè che serve a muovere in avanti la storia e a dargli un pretesto per sfoggiare la sua estetica. E’ difficile trovare dei momenti in cui il film si dedica a fare emergere un’emotività nei personaggi: anzi, spesso si rifiuta persino di abbracciare il loro sguardo. I traumi della vita del tiranno e quelli dell’eroe fanno parte di un meccanismo narrativo scontato che non vuole mai approfittare delle sue potenzialità archetipiche: la morte della famiglia di Iperione viene solo accennata mentre il brutale assassinio della madre di Teseo viene risolto attraverso la prospettiva della macchina da presa e non attraverso il dolore del figlio. Tarsem Singh rivendica il possesso del punto di vista e sceglie l’angolo visuale in funzione delle sue intenzioni compositive: Immortals è un film affascinante ma ossessivamente decorativo. Il regista si rifugia nel campo totale o nel campo lungo ogni volta che può: è la misura che gli permette di pefezionare il cromatismo e di accennare alla sua formazione artistica. La tonalità fredda e satura della luce esalta i colori che differenziano i vestiti dei personaggi: l’oro delle divinità, il porpora della sibilla e della magia e il blu scuro dei soldati. I combattimenti vengono allestiti in una forma sempre più innaturale e sinfonica e la loro bellezza non è solo legata alla perfetta plasticità dei corpi ma soprattutto alle rosse esplosioni del sangue. La scelta degli attori è funzionale a questo scopo in cui le interpretazioni devono limitarsi alla posa: Henry Cavill è un corpo anonimo e il sospetto della sua inespressività non fa rimpiangere l’assenza dei primi piani; Mickey Rourke gigioneggia nel ruolo abituale del dannato e accoglie senza intensità lo stereotipo del uomo che si crede eterno…

Knockout – La resa dei conti

11 sabato Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Steven Soderbergh

con Gina Carano, Ewan McGregor, Channing Tatum, Michael Douglas, Michael Fassbender, Antonio Banderas; Origine: USA/Irlanda, 2011; Durata: 93′

Il lavoro porta spesso Mallory Kane a sporcarsi le mani di sangue con azioni che nessun membro o capo di stato potrebbe mai ammettere. Mallory viene infatti spesso ingaggiata dai servizi segreti per pericolose missioni o omicidi da portare a termine. Tuttavia, durante la sua ultima spedizione a Dublino qualcosa non è andato per il verso giusto e sembra che qualcuno dei compagni di squadra voglia incastrarla. Costretta a tornare negli Stati Uniti per salvare se stessa e la propria famiglia, Mallory dovrà sfuggire da un gruppo di cinque agenti speciali, disposti a tutto pur di fermare i suoi propositi di vendetta nei confronti dei responsabili dell’operazione sabotata. 

I film di Steven Soderbergh sono difficili da accettare. Il suo rapporto feticistico con il cinema ha toccato tutti i generi ma non ne ha mai assorbito nessuno e il regista è di nuovo colpevole di un distacco premeditato dalle sue scelte di messa in scena. La sua freddezza non conosce eccezioni e il cineasta la rivendica come un orgoglioso marchio distintivo: Haywire è uno spy-movie che vuole essere poco appassionato, come se Steven Soderbergh avesse deciso di smontare qualsiasi idea di progressione narrativa. Le possibilità che la storia decolli verso la concitazione dell’azione vengono ostacolate intenzionalmente e il film si impegna ad essere insulso e privo di pathos. Questo volontario allontanamento risponde ad un preciso programma teorico: Haywire è esattamente il film che il regista voleva fare. La motivazione che lo ha spinto ad adottare una simile prospettiva non è troppo oscura: Steven Soderbergh non ha mai ammorbidito la sua personalità e spesso il suo ego è stato il limite della sua carriera. Il suo film è l’ennesimo tentativo di smascherare il cinema e di mostrarne la falsità: è una resa dei conti che può consumarsi solo attraverso la sistematica esclusione di ogni interruttore emotivo. I personaggi del film vanno e vengono solo per essere sacrificati alla tesi del regista: Haywire infila una serie di sequenze che sfoggiano una ricercata mancanza di spessore proprio nel momento in cui seguono alla lettera il rituale del genere. Steven Soderbergh vuole far sentire il vuoto e il silenzio che accompagnano il suo meccanismo: gli inseguimenti sono solo tecnica se lo spettatore non partecipa e non condivide le emozioni della protagonista. Il corpo a corpo tra Gina Carano e Michael Fassbender deve essere asettico e la scena gioca appositamente sul contrasto carnale del loro combattimento: la loro lotta assomiglia ad un amplesso ma non può che finire con la morte di uno dei due. Steven Soderbergh fa quello che fa sempre quando si muove all’interno di una produzione commerciale e quando si confronta con i tempi del raccontro tradizionale: tenta di dimostrare come questo tipo di cinema non faccia altro che ripetere degli schemi abusati, che rivelano la loro artificiosità e la loro inadeguatezza. Il regista non si rende conto di come la sua opinione abbia delle lacune: è proprio questa arbitraria rimozione che dimostra la necessità di una forma di identificazione. Steven Soderbergh non ha ancora perfezionato una versione alternativa e finora ha speso gran parte della sua attività a distruggere piuttosto che a costruire: per un paradossale contrappasso, i suoi film migliori sono proprio quelli che ha diretto su commissione. E’ doveroso riconoscere la sua padronanza della manualistica e la sua coerenza nel perseguire il suo intento ma non si intravede mai quell’idealismo che gli permetterebbe di rifondare il cinema. I suoi rari successi hanno dimostrato come sia in grado di tenere in piedi una storia e di coinvolgere il pubblico: tuttavia, il suo percorso è stato quello di qualcuno che ha fatto di tutto per sconfessarli come degli inevitabili e sgraditi compromessi. Una forma di capriccio accademico, più che una volontà poetica.

Il debito – The Debt

05 domenica Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di John Madden

con Jessica Chastain, Sam Worthington, Tom Wilkinson, Helen Mirren, Marton Csokas, Jesper Christensen; Origine; USA, 2010; Durata: 113′

Nel 1965 tre giovani agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, catturarono e uccisero un famoso criminale nazista ancora in libertà. Oggi, a trent’anni e più di distanza, riappare in Ucraina un uomo che sostiene di essere l’ex nazista che si credeva morto e uno degli agenti di allora deve recarsi in incognita nella nazione dell’est europeo per scoprire la verità.

La distribuzione italiana ha ritardato l’uscita di The Debt: tuttavia, una cronologia pertinente gli attribuisce un ruolo di apripista. E’ facile notare le sue somiglianze con La talpa di Tomas Alfredson, che pochi mesi fa è arrivato persino a sfiorare l’Oscar. Il film del redivivo John Madden era stato realizzato addirittura nel 2010 ed è arrivato sui nostri schermi con un anno di ritardo: a sua volta, la sceneggiatura di Matthew Vaughn e di Jane Goldman si basa su Ha-hov di Assaf Bernstein, che nel 2007 era stato notato come una delle proposte israeliane più interessanti del decennio. La lezione di Munich di Steven Spielberg ha fatto scuola e il cinema inizia ad interessarsi ad un argomento che fino a questo momento era stato trascurato: gli agenti del Mossad offrono una diversa declinazione dell’agente segreto. The Debt contribuisce a smantellare il mito e si impegna a disgregare i luoghi comuni che hanno favorito la sua affermazione nell’immaginario collettivo: l’intreccio punta proprio a delimitare il confine che esiste tra la realtà e la sua richiesta di rappresentazione. Il film ripropone lo scenario di una delle più gloriose imprese dei servizi ebraici: il ritrovamento e la consegna di Adolf Eichmann ad un tribunale di Gerusalemme. In questo caso, il vecchio aguzzino nazista non si trova in Argentina ma a Berlino Est e invece di essere il contabile dello sterminio è solo uno dei sadici medici di Birkenau. Eppure, il gruppo formato da Chris Hemsworth, Jessica Chastain e Marton Csosak condivide gli stessi impacci di quello di Eric Bana e di Daniel Craig, che doveva vendicare le vittime delle Olimpiadi di Monaco. La storia della loro missione è una storia di fallimenti che non possono essere tollerati dal loro senso di colpa e dalle aspettative di Israele: i protagonisti sono continuamente divisi tra l’obbedienza alla nazione, il desiderio di farsi una vita normale e l’ostinazione con cui devono riparare ai torti subiti dal loro popolo. E’ un’interpretazione del genere che si allontana radicalmente dallo stereotipo di James Bond, che nella sua versione classica non ha alcun passato e non ha nessun legame: persino 007 ha dovuto accettare una recente rilettura in cui le sue azioni hanno una motivazione. Il film ruota intorno a quello che una spia dovrebbe essere e quello che una spia è: l’esito apparentemente positivo del loro compito ha consegnato degli eroi ma l’acclamazione popolare delle loro gesta non ha mai tenuto conto della loro coscienza e si è sempre accontentata della versione più comoda della storia. I tre sono diventati quello che la nazione voleva che diventassero, hanno realizzato quello che pensavano fosse il loro sogno ma non possono confessare il loro reale stato d’animo e meno che mai possono liberarsi di un peso che solo loro conoscono… Le sfumature di The Debt sono meno sofisticate di quelle di Steven Spielberg e di Thomas Alfredson: le tensioni sotterranee del gruppo vengono incarnate dalla duplice natura di Jessica Chastain, che da una parte ha il determinato candore di Giuditta e dall’altro scatena una rivalità sessuale tra i suoi compagni. La donna entra nella tenda di Oloferne con l’artificio di una visita ginecologica e tutto il film viene percorso da un tono di vendetta femminile, in cui l’eroina vuole vendicare la madre che è morta a Birkenau, vuole tutelare la figlia che ha sempre creduto al suo eroismo e vuole salvare la nipote che rappresenta il futuro di Israele… John Madden organizza le inquadrature in modo da convogliare la centralità dell’attrice e di Helen Mirren, che la interpreta nella sua fase anziana: la sua regia è contenuta e si limita a guidare lo spettatore senza invadere il terreno della storia. Il lavoro della messa in scena si limita a dare credibilità alle ambientazioni e al contesto: Berlino Est viene ricostruita attraverso gli stereotipi culturali delle fotografie d’epoca e la scenografia non si sforza di proporre qualche panorama inedito. The Debt persegue con efficace perseveranza la strada della sobrietà: una scelta felice che non spreca gli ottimi elementi che ha disposizione.

Fright Night – Il vampiro della porta accanto

01 mercoledì Ago 2012

Posted by gbanks1966 in recensioni

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cinema, film

di Craig Gillespie

con Anton Yelchin, Colin Farrell, Christopher Mintz-Plasse, Imogen Poots, David Tennant, Toni Colette; Origine: USA, 2011; Durata: 106′

Una sera il giovane Charley assiste involontariamente a qualcosa di orribile che avviene nell’abitazione di Jerry, sospettoso vicino di casa da poco trasferitosi nel quartiere. Il ragazzo si convince che il nuovo residente sia un pericoloso vampiro, assetato di sangue di giovani ragazze. Poiché né la madre né gli amici sembrano credere al racconto di quanto lui ha visto, Charley decide di intervenire in prima persona per sbarazzarsi del mostro ma l’estenuante caccia, a suon di crocefissi e paletti, finirà con il mettere a repentaglio la vita del ragazzo e quella della sua amata fidanzata.

I magnetici primi piani di Colin Farrell emanano quello che è il tratto più marcato di Fright Night: una difficile convivenza tra il serio ed il faceto, come se il suo tono dipendesse proprio dalla sua incertezza. Il film deve fondere la commedia e l’horror e sceglie di non far capire da quale parte stare: lo strumento che dovrebbe unire l’orizzonte è una comune connotazione pop: gli ammiccamenti ai luoghi del cinema gotico si deformano nella contemporaneità dell’ambientazione nei sobborghi di Las Vegas, si accumulano uno sull’altro fino ad implementare anche il referente del primo film e per estensione tutto l’hottor degli anni ottanta. Il film potrebbe vantare degli elementi più grandi delle sue pretese ma alla fine li mostra con un certo imbarazzo, come se ne avesse vergogna e non riuscisse a maneggiarli. Chissà quali sono stati i motivi che hanno spinto delle personalità così invadenti a confrontarsi con un remake horror e a concedergli una possibilità di distinzione rispetto ai tanti epigoni che hanno condizionato gli ultimi dieci anni del genere. Una delle cause di questa bizzarra e fortunosa circostanza potrebbe essere rintracciata nel fascino del primo Fright Night, che venne firmato da Tom Holland nel 1985. La nuova versione ha chiamato in causa Craig Gillespie e il regista ha dovuto affrontare una sfida ben diversa rispetto all’esordio indie di Lars and the Real Girl: il suo nuovo film ha un cast insolitamente ricco per un horror e ha il lussuoso contributo di Javier Aguirresarobe. Il direttore della fotografia spagnolo si è già adattato ad Hollywood con la saga di Twilight e il suo intervento ha impreziosito il film di un’eleganza che non tutti riescono a gestire. Fright Night sembra dividersi in percorsi separati, come se la macchina da presa avesse un dialogo differente ed esclusivo con gli attori e si adattasse alle loro capacità. E’ evidente come l’inquadratura e Colin Farrell abbiano un canale di comunicazione privilegiato: la fotografia è salvata e gioca con le luci e le ombre ma conserva una sfumatura camp; la recitazione valorizza l’appeal animalesco del vampiro ma suggerisce continuamente la sua autoironia. Il film ripete spesso questa ambiguità anche quando l’intenzione si trasforma in un equivoco. Le due velocità del film non si aiutano a vicenda ma il loro contrasto produce delle conseguenze non calcolate ma ugualmente interessanti. Non si capisce mai quale sia la vera natura di Fright Night: la cura della messa in scena non viene mai a patti con le sue intenzioni di intrattenimento. La sua vocazione ludica viene esasperata da una gustosa ricerca dell’effetto e dallo spensierato utilizzo della stereoscopia: eppure, c’è sempre la sensazione che Fright Night abbia delle altre potenzialità. Il talento delle sue parti separate riesce a tenere in piedi il film, nonostante una inconsapevolezza della visione generale: forse è l’ecessiva linearità della sceneggiatura a permettere che ogni sforzo si incanali nella giusta direzione pur senza avere una guida sicura. La sceneggiatura di Marti Noxon sfrutta l’esperienza della scrittrice nella serie di Buffy e offre il contesto in cui le accelerazioni e le impennate del film possono accostarsi alla natura autoreferenziale e citazionista dell’operazione. Fright Night sa come giocare con il genere anche se questa tendenza dell’horror ormai non è più una novità: non ci si stupisce più dei film che si parlano addosso e fanno cenni al passato. Eppure, ci sono ancora degli esempi che rinunciano a qualsiasi ambizione concettuale e cancellano tutte le veilletà di profondità che potrebbero presentarsi sul suo cammino: è questo il motivo per cui Fright Night è ancora un film divertente…

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